Ed eccoci qui, con perdonabile ritardo, a parlare di Maniac (Cary Joji Fukunaga e Patrick Somerville, 2018), la miniserie in dieci “incostanti” episodi recentemente apparsa su Netflix e intenzionata – secondo molti – a fare strage di cuori e cervelli tra gli spettatori…

Maniac racconta la storia (già diversamente raccontata nel 2014 dall’omonima serie norvegese) di un’improbabile coppia di squinternati, Owen (Jonah Hill) e Annie (Emma Stone), alle prese con un percorso sperimentale di recupero che li impegnerà mente e corpo alla ricerca di un’identità castrata dalle afflizioni della vita, traumi che ne hanno pesantemente condizionato l’equilibrio e la serenità e che ora impedisce loro di gestire il passato, il presente e il futuro. Durante il trial clinico, supervisionato da uno staff medico piuttosto discutibile, la dottoressa Fujita (Sonoya Mizuno) e il dottor Mantleray (Justin Theroux), affiancati dalla madre di lui, la psicoterapeuta Mantleray (Sally Field) e da un’intelligenza artificiale depressa, i due pazienti cavia si trovano a vivere un sogno/incubo condiviso nel quale imparano a conoscersi, sostenersi e aiutarsi, cementificando un sentimento fino a quel momento precluso a entrambi: la complicità (e forse l’amore).

Dopo qualche episodio – molto sbilanciato in termini di economia narrativa e francamente piuttosto dispersivo – Maniac entra nel “vivo” della vicenda provando a raccontare, non senza qualche divertente trovata (ottima quella di sfruttare una sorta di steampunk rovesciato, “come sarebbe il futuro se il passato non avesse fatto il suo corso”, in cui il presente convive con tecnologie e abbigliamento tipicamente anni Ottanta) e un andamento narrativo decisamente atipico (con episodi variabili per genere e durata), una storia tanto potenzialmente curiosa, quanto effettivamente fragile e ripetitiva.

Se, in termini di registro, il riferimento più immediato sembra essere Charlie Kaufman di Being John Malkovich (Spike Jonze, 1999), Eternal Sunshine of the Spottless Mind (Michel Gondry, 2004) e Anomalisa (Charlie Kaufman, 2015) – che della rappresentazione dello straniamento cognitivo ed emotivo ne ha fatto un vero e proprio marchio di fabbrica, tanto da piegare e trasformare i generi narrativi in pure fantasie allucinatorie – l’assetto estetico tipicamente alienante ricorda quello di Wes Anderson, ricco com’è di inquadrature simmetriche catalizzanti ed soluzioni visive tese a produrre una comicità dissonante, specie nel tratteggio dei personaggi.

Ma non è tutto oro quel che luccica, e se i riferimenti (che non si fermano certo a questi brevi esempi, sul fronte seriale potremmo citare anche Legion e The Leftovers) appaiono illustri e nobilitanti, la verità è che il pot-pourri proposto da Maniac vanta ingredienti slegati tra loro e un gusto perlopiù insapore, pronto a tradire la natura largamente derivativa della sua ricetta. Tutte carenze alle quali – si sospetta – si auspicasse di rimediare ricorrendo a qualche buona maestranza e a un paio di star.

Nonostante non sia tutto da buttare, perché nella sua estenuante prolissità compositiva la serie vanta anche qualche simpatica intuizione, Maniac resta un prodotto perlopiù respingente, subissato dai tempi morti, incapace di trovare una quadra che valga più del tempo perso a cercarla. Gli episodi “di genere” appaiono tutti ben studiati nell’ottica della main story, ma la verità è che sono di una noia letale, completamente privi di interesse, svuotati nell’intimo delle loro funzioni espressive (smorzati come sono nel tono e nei codici utilizzati).

Le scelte adottate da un Kaufman o da un Anderson funzionano perché appaiono coese nel corso della storia – che di solito non supera la durata del lungometraggio – e restano ben integrate nel dna degli eventi e degli esistenti. Diversamente, mimarne i costrutti simbolici per trarne una storia (quella di Maniac) non può che mostrane presto le contraddizioni e assurdità, esibendo la generale e palese povertà di contenuti. Consigliata come rimedio per l’insonnia.



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